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Good luck, Andrew Luck
Come un fulmine a ciel sereno arriva la notizia del ritiro dal football professionistico di Andrew Luck, quarterback degli Indianapolis Colts.
Come un fulmine a ciel sereno, così è arrivata nella notte italiana la notizia del ritiro dal football professionistico di Andrew Luck, ex (a questo punto) quarterback degli Indianapolis Colts e certamente una delle stelle più fulgide nel panorama della National Football League.
Andrew Luck: pane e football e carriera universitaria
Cresciuto a pane e football (il padre Oliver fu quarterback a West Virginia e per gli Houston Oilers e ricoprì numerosi incarichi dirigenziali ed amministrativi per l’NFL e l’ NCAA prima di diventare l’attuale commissioner della lega XFL oramai prossima al debutto nel 2020), Andrew Luck scelse nel 2008 di frequentare l’università di Stanford, dove sotto la guida di Jim Harbaugh prima e di David Shaw poi fu decisivo nell’imporre Stanford, già notoriamente considerata tra le università più prestigiose per meriti accademici, tra i programmi di football di punta della nazione.
Pur non riuscendo a vincere l’Heisman Trophy ed annoverando “solamente” due secondi posti alle spalle di Cam Newton nel 2010 e di Robert Griffin III nel 2011, la sua (prevedibile) decisione di lasciare il college dopo la junior season scatenò le fantasie ed anche ironie dei tifosi di football che, vedendo in lui la venuta di un nuovo messia del quarterbacking, parlarono di “Suck for Luck”, di un’ipotetica corsa a “fare schifo” (to suck) da parte delle franchigie nel 2011, con lo scopo di assicurarsi la prima scelta assoluta al Draft NFL 2012 e portarsi a casa i numerosi e desiderabilissimi talenti di Andrew.
Luck erede di Manning ai Colts
I vincitori di questa corsa alla rovescia furono i disastrosi Colts, orfani per l’intera stagione 2011 nientepopodimeno che di Peyton Manning, azzoppato (o…decapitato, se preferite) da un infortunio al collo che ne minacciò la carriera ed indusse i Colts a liberarlo dal suo contratto e procedere prontamente ad assicurarsi Luck come suo erede.
Il resto è storia: Peyton andò a Denver dove, lottando con la vecchiaia e con il proprio collo e cavalcando una delle difese più forti dell’ultimo decennio, ottenne il suo secondo anello dopo quello conquistato ad Indy nel 2007 e si ritirò, celebrato come uno dei più grandi giocatori della storia, dopo il Superbowl 2015. Luck arrivò ad Indianapolis con l’onore e l’onere di mantenere promesse estremamente impegnative e si impose subito come una versione millennial di “Captain Comeback” per le ripetute vittorie in rimonta da lui guidate nell’ultimo quarto. Particolarmente memorabile fu la vittoria sui Chiefs in uno degli AFC Wild Card games del 2014, la seconda maggior rimonta nella storia della postseason NFL, in cui un 38-10 in favore di Kansas City ad inizio terzo quarto si tramutò in un magico 45-44 per i Colts.
Gli aneddoti sulla carriera di Luck potrebbero continuare. Nell’offrirgli oggi il nostro modestissimo tributo, è del tutto superfluo elencarne i numeri. A noi piace ricordare Luck come uno dei QB più forti di questi anni, quello che si definisce un “talento generazionale”, certamente destinato ad essere uno dei volti più rappresentativi della NFL nei prossimi anni, raccogliendo l’eredità di leggende quali Manning, Brady, Roethsliberger e Brees.
In queste ore ci rimane da un lato un po’ l’amaro in bocca (figuriamoci cosa rimane ai tifosi dei Colts…) di non averlo visto tradurre l’indiscutibilmente unico talento e potenziale in vittorie e la sensazione di avere perso un grandissimo campione senza averlo potuto apprezzare appieno. Dall’altro, non si può non celebrarne le gesta talora epiche alle spalle di una linea offensiva apparsa non all’altezza per essere generosi o scandalosa per essere onesti, durante la maggior parte dei suoi sette anni da pro.
I motivi del ritiro
E qui devono subentrare il giudizio tecnico e le lezioni per il presente ed il futuro. Salutiamo un fuoriclasse, un lottatore come pochi, capace con il suo fisico imponente e con la sua mobilità di raccogliere yards su corsa e di resistere ai maltrattamenti delle difese avversarie, il tutto mostrando qualità da passatore di alto livello e doti da trascinatore di una squadra senza grandissime stelle al suo fianco. Ci abbandona anche un ragazzo sempre apparso molto “normale” ed un uomo vero, che ha avuto gli attributi di essere a bordo campo nel proprio stadio durante la sfida di preseason contro i Bears della scorsa notte, beccandosi così i “boo” dei propri tifosi nel momento in cui la notizia del suo ritiro ha iniziato a circolare. Uscito dal campo a testa alta pur nella tristezza assoluta di questo epilogo, Luck con la sua scelta ci ricorda il misto di bellezza e brutalità della NFL e del football americano, nonché il dilemma vissuto da chi ha le facoltà caratteriali e finanziarie per allontanarsi dallo sport finché è in tempo, così diverso da quello di altri giocatori che per amore o necessità si espongono ai gravi rischi del mestiere anche fino a compromettere la propria saluta fisica e mentale di medio e lungo termine.
Nondimeno, la decisione di Luck, che si stava riabilitando l’ennesimo infortunio di una carriera martoriata, in particolar modo per effetto del grave infortunio alla spalla forte che lo aveva tenuto fuori dai campi per quasi due anni dall’autunno 2016 fino alla scorsa stagione, non può non rafforzare la condanna dell’operato totalmente inetto dei Colts, incapaci per anni di rafforzare la linea offensiva ed offrire migliore protezione ad una delle gemme più pure del panorama NFL.
In un’era di campioni da selfie e di punteggi cestistici, questa considerazione ripropone una delle poche certezze che fanno ancora amare il football autentico: gli uomini di linea, gli eroi di cui non si cantano le gesta, possono ancora fare la differenza, mentre a nulla serve pretendere di essere il running back o il quarterback più pagato della lega (vero Zeke e Dak?) se non si è possesso di un talento più unico che raro (alla Luck) e se si uccide con le proprie pretese il salary cap del club, impedendo di rafforzare per esempio proprio le trincee di attacco e di difesa, ossia le fondamenta di una squadra di successo.
I Colts oggi piangono, a prescindere dalla veridicità dei rumors (e delle loro prevedibili smentite, già prontamente rilasciate ai media) sulla conoscenza delle incertezze di Luck sin dalla primavera. Certo, lasciare i propri colori e compagni a due settimane dall’inizio della stagione è una decisione pesantissima ma in questo momento, piuttosto che speculare sulla transitorietà della decisione (un po’ come con Gronk, tutti già si chiedono se fra 9 mesi o due anni non ci sarà un ripensamento…) è più giusto rispettare la solitudine del campione che se ne va non sconfitto ma senza avere realmente vinto e, qualsiasi cosa il futuro gli riservi, augurare ad Andrew buona fortuna: “Good Luck!”.
Autore: Federico Aletti
Data di pubblicazione:
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