Se non avesse il football nel sangue, e cioè la voglia di conquistarsi tutto centimetro dopo centimetro e con fatica, Giacomo Berti non sarebbe dov’è oggi. Ad Upper Iowa University, Division 2, primo italiano ad aver ottenuto una scholarship in Ncaa. Classe 1989, 184 centimetri per 108 chili, defensive back o linebacker a seconda delle necessità di squadra. Per la prossima stagione potrà studiare e giocare a football nel modo che ha sempre rincorso e dove è arrivato perché ci ha creduto e perché negli USA hanno creduto in lui. La storia, però, è complessa. E raccontarla può servire a tutto il mondo del football italiano. Ce la racconta lui stesso, classe 1989, gli inizi a Bologna, dove ha giocato nei Warriors e nei Doves, e poi il grande salto: «Nel 2011 sono andato a Phoenix, nello stesso junior college dove era andato anche Domenico Carroli. Ho disputato una buona stagione, ma lì non danno scholarship a chi non è dell’Arizona».
Il primo problema, però, è stato un altro.
E’ stato fisico. Nel 2012 ero partito titolare, ma poi mi hanno trovato due ernie e mi sono dovuto operare. Mi sono ristabilito in fretta. Mi dicevano che non avrei potuto tornare a giocare, invece 4 mesi e 23 giorni dopo l’intervento ero già in campo, pronto per una stagione da Sophomore. Non era scontato, visto che lì chi rientra da un infortunio non viene molto considerato finché non dimostra di aver ritrovato la piena efficienza.
E veniamo al secondo ostacolo…
Un’ora prima del kickoff si sono accorti della regola in base alla quale gli studenti internazionali oltre i 21 anni hanno a disposizione solo un anno di junior college. In due giorni hanno mandato in giro i miei highlights e mi hanno trovato una scholarship ad Upper Iowa University.
Sembra tutto risolto. E invece no.
La documentazione è arrivata solo a metà stagione. Ma mi hanno tolto due anni di eleggibilità perché avevo giocato in Italia. Quindi l’anno prossimo giocherò da senior e sarà il mio ultimo anno.
Perché ti hanno tolto due anni?
E’ una regola creata dalla Ncaa per evitare cose che accadono in altri sport, non certo nel football. C’erano troppi casi di calciatori, pallavolisti o cestisti che magari, già professionisti nei loro paesi, cercavano anche borse di studio negli Stati Uniti. A loro è bastato sapere che in Italia c’è un campionato organizzato, con un calendario definito, divise ufficiali e arbitri, per classificarlo come professionistico. Senza sapere che la realtà è ben diversa
Hai mai avuto la tentazione di mollare?
Mai. Sono andato via dall’Italia per dimostrare a me stesso che potevo competere a un livello più alto. E’ sempre stato quello che volevo fare. Quando ero in Italia mi allenavo anche da solo per essere il più pronto possibile. Volevo dare alla mia passione una dimensione totalizzante e potevo farlo solo in America, dove per riuscirci devi studiare e avere una certa media. Questo mi permette di vivere il football come voglio.
Quali sono le differenze più importanti con l’Italia?
Se penso ai giocatori nel giro della Nazionale, a livello tecnico non c’è poi così tanta differenza. Appena arrivato non mi sono sentito molto indietro da quel punto di vista. La differenza è atletica. Lì inizi a formarti fisicamente, a lavorare con i pesi e a fare preparazione atletica già dai 15 anni. Ti costruisci un vantaggio atletico sugli europei che non è comparabile. In Italia si comincia più tardi e non ci si allena così tanto. Io peraltro, siccome volevo farmi trovare pronto, quando ero in Italia mi sono allenato da solo in palestra a lungo. Ma non è comunque la stessa cosa. Sia perché negli USA c’è anche una periodizzazione e programmazione di allenamenti di squadra, ma c’è anche bisogno di indirizzare la preparazione con metodologie propedeutiche al football. Sono arrivato lì forte fisicamente, ma non preparato per certi carichi di lavoro. Per questo è arrivato l’infortunio alla schiena.
Quali sono i tuoi obiettivi?
L’anno scorso Upper Iowa ha fatto risultati importanti, migliorando il suo record. Siamo andati vicini ai playoff. Sarebbe bello raggiungere questo obiettivo con la squadra. Poi laurearmi, studio Comunicazione, tornare in Europa e fare due conti con me stesso per vedere cosa posso fare, se continuare a giocare o meno e dove.
Ti piacerebbe fare qualcosa di importante con il Blue Team?
Moltissimo. La Nazionale mi è mancata un sacco. Avrei tanto voluto giocare gli Europei di Milano. Penso che siamo sulla strada giusta e quando rientreranno anche gli altri ragazzi che ora sono negli USA, visto che finiamo più o meno tutti nello stesso periodo, credo che avremo belle prospettive. Penso che siamo vicini alla svolta e vorrei tanto esserne protagonista. Però vorrei che la mia esperienza fosse utile anche ad altri.
Cioè?
Mi piacerebbe aver aperto una strada per chi volesse provarci in futuro. Se uno dimostra di valere, non dovrebbe avere gli ostacoli che ho avuto io e magari scoprire 10 minuti prima del kickoff che non può giocare o che gli vengano tolti due anni perché in passato ha fatto 3 allenamenti a settimana dopo il lavoro. Spero che si riesca ad aprire un canale di comunicazione con la Ncaa affinché capiscano qual è la realtà italiana e che i ragazzi italiani provano ad andare lì per sentirsi professionisti, cosa che qui non possono essere.