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GREAT LAKES WIND Week 3 – Season 2021
Torniamo a fare un giro tra i Grandi Laghi con il punto di Touchdown Magazine su Bears, Lions, Packers e Vikings, protagonisti della “Black and Blue Division”
Torniamo a fare un giro tra i Grandi Laghi dopo le prime due settimane della stagione 2021. Il punto di Touchdown Magazine su Bears, Lions, Packers e Vikings, protagonisti della “Black and Blue Division”
I Great Lakes of North America, i Grandi Laghi americani, cinque bacini d’acqua immensi, battuti da venti gelati e impietosi, che identificano intimamente luoghi sulle loro sponde come la Windy City, Chicago, sono simbolo di paesaggi selvaggi, di climi estremi, di epica sconfinatezza. Qualcuno ne ricorderà ancora i nomi distrattamente letti sul libro di geografia delle scuole medie: Michigan, Huron, Erie, Superior, Ontario. Oltre allo stato del Michigan, quello che più di ogni altro è associato ai Great Lakes, con la sua caratteristica forma di mano (più l’Upper Peninsula) disegnata in mezzo a quattro dei cinque laghi, anche l’Illinois, il Wisconsin ed il Minnesota, stati di casa rispettivamente per Detroit Lions, Chicago Bears, Green Bay Packers e Minnesota Vikings, si affacciano su almeno uno di essi (oltre a Indiana, Ohio, Pennsylvania, New York e alla provincia canadese dell’Ontario).
Per questo, Great Lakes Wind, il Vento dei Grandi Laghi, vuole essere un appuntamento, pensato per i tifosi delle franchigie della NFC North e non solo, nel quale potere dibattere l’andamento della cosiddetta “Black and Blue Division”. Nella speranza che questo possa diventare un appuntamento regolare, concluse le dovute introduzioni (anche geografiche) del caso, è il momento di partire per il Midwest e scoprire cosa si dice a Chicago, Detroit, Green Bay e Minneapolis-Saint Paul dopo le prime due giornate della regular season 2021.
Situazione apertissima dopo le prime due partite della stagione 2021 nella NFC North, la nostra amata “Black and Blue Division”. Non potrebbe essere altrimenti, data la sonante batosta subita dai Green Bay Packers in trasferta per mano dei New Orleans Saints in Week 1, che ha reso (per ora) meno netto il divario da molti previsto alla vigilia fra i portabandiera del Wisconsin e gli altri tre membri della NFC North.
In questa nostra prima carrellata stagionale partiamo proprio dalla città sulle sponde settentrionali del Lago Michigan, ossia Green Bay. La deludente apertura di stagione dei Packers aveva scatenato le interpretazioni più severe e dietrologiche dei possibili strascichi lasciati dalla “querelle” che aveva visto protagonisti Aaron Rodgers da una parte ed il management dei Packers dall’altra durante l’offseason. Una telenovela che molti avevano paventato che si sarebbe conclusa con un trade verso Ovest, in accordo con i desiderata non troppo misteriosi di Rodgers, con i Rams una possibile destinazione prima di accaparrarsi Stafford, i 49ers altro ipotetico pretendente prima del blockbuster trade per la terza scelta assoluta poi servita per selezionare Trey Lance ed infine anche i Raiders e soprattutto i Broncos, che furono, si dice, molto vicini a concludere un accordo con i Packers durante la primavera. Un’altra teoria, addirittura, prevedeva per Rodgers un clamoroso addio al football, qualora si fosse concretizzata un’offerta dal mondo della TV, per condurre “Jeopardy!”, uno dei (se non il) più famosi quiz televisivi degli Stati Uniti, di cui Aaron, notoriamente grandissimo fan, aveva condotto alcune puntate in aprile, nel periodo in cui la produzione aveva “testato” i possibili candidati, compreso il quarterback californiano, a rimpiazzare il compianto ed indimenticabile Alex Trebek.
Certamente le polemiche non si sono fatte attendere dopo la sconfitta patita dai Saints con il punteggio di 38–3, la peggiore della carriera di Rodgers. Ovviamente, nel suo miglior stile, Aaron si è già tolto qualche sassolino dai “cleats” dopo la vittoria sui Lions nel Monday Night di Week 2, criticando i critici, che avevano analizzato ai raggi X la sua alquanto deficitaria prestazione contro i Saints. Molto meglio è andata infatti contro Detroit, dove Rodgers ha giocato ad un livello ben più consono alla propria fama, coinvolgendo a dovere il suo “partner in crime” Davante Adams e permettendo soprattutto di scatenare un Aaron Jones in straordinario spolvero, con 1 TD di corsa e 3 su ricezione. Tuttavia, all’umile occhio di chi come il sottoscritto ha assistito al Monday Night, il risultato finale non permette di trascurare l’equilibrio del primo tempo, in cui i Lions si sono battuti con disciplina ed efficienza, al punto da giungere in vantaggio per 17–14 all’intervallo. Insomma, Rodgers ricorrerà al suo mantra “R–E–L–A–X” ma un conto sarà assumere progressivamente le redini della NFC North, altro sarà imporsi come credibile alternativa a chiunque emergerà dalla NFC West come sfidante dei Buccaneers. Piaccia o no, gli ultimi due NFC Championship Games, persi (male) a San Francisco nel 2019 e in casa ad opera di Tampa nel 2020, hanno detto che i Packers non avevano quanto serviva per raggiungere il Super Bowl ed è impensabile non associare la frustrazione dei successi sfiorati alla tensione fra la dirigenza ed il franchise quarterback.
Sembra sinceramente quasi “automatico” che Rodgers, per la sua qualità, sia sempre esposto, fino a che calcherà i gridiron d’America, ad uno scrutinio riservato solo ai grandissimi. Altrettanto ineluttabile è domandarsi quanto il dramma che circonda la sua persona, sorprendentemente capace di rivelare un lato affabile e accattivante nelle sue comparsate televisive ma troppo spesso caratterizzata da un’aura di supponenza e di stucchevole vittimismo quando veste i panni abituali di atleta sia davanti alle telecamere che sui campi, influenzi il rendimento dei Packers. Si badi, non se ma quanto. Just my two cents, perlomeno. In ogni caso, a Green Bay vanno ancora i favori del pronostico per la NFC North ed è giusto che così sia, viste le incertezze che circondano le tre concorrenti dei Packers.
Abbiamo menzionato l’ultimo Monday Night ed andiamo proprio sulle sponde del lago Erie a Detroit, con i Lions che si ritrovano 0–2, reduci dal rovescio interno contro i 49ers prima e dalla sconfitta di Green Bay poi. Il primo anno di Dan Campbell da head coach dei leoni del Michigan è in realtà soprattutto un anno zero: anno zero di un’ennesima rifondazione, anno zero dopo il clamoroso trade che ha spedito Matthew Stafford a LA sponda Rams in cambio di Jared Goff, anno di pazienza. Sì, pazienza, un bene prezioso e limitato che i tifosi di Detroit devono conservare come l’ultima tanica d’acqua nel deserto, sempre che la speranza esista ancora, in una città reduce da un trentennio di declino inarrestabile e, soprattutto, in una piazza affamata di football ma con la pancia perennemente vuota, dopo avere letteralmente sprecato la carriera di due campionissimi come Barry Sanders e Calvin Johnson e avere lasciato libero di approdare a lidi più competitivi un buonissimo, a tratti ottimo QB come Stafford. Il primo tempo di Green Bay (e anche l’ultimo quarto contro i 49ers), come accennato in precedenza, devono aiutare a ripristinare la fiducia, anche se dopo l’intervallo del Monday Night i Lions, a partire da un Jared Goff più esposto a mostrare i propri limiti e fare confusione di quanto non lo fosse con i Rams, si sono sciolti come neve al sole. Una resa che contrasta con lo spirito bellicoso promesso da Campbell, sul quale è difficile esprimersi oggi: da svariate esternazioni della offseason, si direbbe un coach da “rah rah”, come dicono oltreoceano, ossia focalizzato sul lato motivazionale e con poca sensibilità tattica, ma che merita il beneficio del dubbio anche perché il suo predecessore, Matt Patricia, non ha portato nulla di ciò che si aspettava da lui per l’aspetto tattico, ossia l’acume che avrebbe dovuto imparare dal suo mentore Bill Belichick (mentore, beninteso, di una serie di emeriti falliti nelle loro esperienze da capi allenatori, salvo rare eccezioni). Certo, quando perdi per infortunio a inizio stagione uno dei più attesi difensori a roster, il cornerback ex Ohio State e terza scelta assoluta nel draft 2020 Jeff Okudah, vittima di una lesione al tendine d’Achille nella partita di apertura contro San Francisco, tutto sembra ancora meno roseo di come normalmente già non sia. Tuttavia, torniamo al concetto di anno zero e concediamo ai Lions, ancora una volta, il tempo necessario. Necessario a cosa, a confermare di avere perso tempo con l’ennesimo coaching staff non all’altezza, si potrebbe ribattere se si credesse ad un fato meschino con i Lions? Io penso che sia necessario sapere avere pazienza prima di giudicare chiunque o quasi e certamente il mio “garantismo” non mancherà di farmi prendere le difese anche di Dan Campbell, prima di qualunque prematura condanna.
Chi tutto questa pazienza non la merita più, dopo tanti anni di occasioni, alti e bassi, illusioni e disincanti, è il tecnico arrivato all’ottava stagione alla guida della terza città del Midwest in cui atterriamo nel nostro viaggio per la NFC North. Parliamo di Minneapolis, casa dei Minnesota Vikings e ovviamente parliamo di Mike Zimmer. Zimmer non può essere tacciato di non essere un coach solido, così come è ingiusto guardare solo i lati oscuri della gestione del General Manager Rick Spielman, da dieci anni al timone dei Vichinghi, il cui curriculum è peraltro sicuramente segnato dal giudizio controverso (nella migliore delle ipotesi) sul contratto di Kirk Cousins. Il punto è però che, dopo tutti questi anni di sodalizio tra i due, è doveroso mettersi nei panni dei tifosi giallo–viola per fare i conti, per venire al dunque. Anche questo inizio di stagione ha tradito, per i Vikings, alcuni vecchi vizi mai risolti. Il tasto più dolente è forse stato quello del kicker, posizione in cui cambiano i fattori ma il prodotto continua a lasciare a desiderare, con Greg Joseph alla gogna dopo avere fallito un calcio da 37 yards che avrebbe consentito di sorpassare sulla sirena finale i Cardinals e portare a casa una W in Week 2. I Vikings alla terza giornata si recano a Seattle, nello stadio che rievoca le tristi memorie delle gesta ben poco gloriose di Blair Walsh nei playoff 2016 e gli occhi di tutti saranno puntati su Joseph, nella speranza che possa risollevarsi e stabilizzare la posizione.
Più enigmatica invece l’analisi delle prime due uscite stagionali di un’altra unità che da anni è causa di cruccio a Minneapolis, vale a dire la linea offensiva. Dopo una prestazione tutt’altro che incoraggiante a Cincinnati, in…linea con tante, troppe circostanze delle stagioni più recenti, molto meglio è andata in Arizona, dove i Vikings hanno concesso solo un sack ed in totale 7 pressioni su 33 giochi di passaggio. Innegabile l’efficacia del game plan, con Kirk Cousins che in media ha lanciato la palla dopo 2.24 secondi dallo snap ma, dando a Cesare ciò che è di Cesare, è giusto anche concedere credito alla linea per avere evitato il peggio, a dispetto del compito improbo di contenere il duo formato da JJ Watt e Chandler Jones (quest’ultimo reduce dai 5 sacks dell’esordio in casa dei Titans, dove aveva semplicemente ridicolizzato Taylor Lewan, non esattamente l’ultimo arrivato tra gli offensive tackle della lega). Nondimeno, la linea d’attacco potrebbe altresì beneficiare, al momento opportuno, dell’ingresso nello starting lineup di Christian Darrisaw, la prima scelta da Virginia Tech al draft dello scorso aprile, selezionato da Spielman al numero 23, dopo un trade down (una delle grandi specialità di Spielman, alla quale mi riferisco scherzosamente con l’aforisma “never trade up if you can trade down”). Parlando di momenti opportuni, tuttavia, non si può non manifestare perplessità di fronte al fatto che la rookie class dei Vikings, che includeva 11 giocatori selezionati durante il draft, è stata sinora la meno utilizzata dell’NFL, con solo 4 snap giocati a Cincinnati e nessuno a Phoenix (altro segnale che non contribuisce a difendere la posizione di Spielman, agli occhi dell’osservatore esterno). In tal quadro, per questa volta tenderei a lasciare tranquillo il giocatore più controverso del roster dei Vikings, un giocatore di cui conosco bene i trascorsi sin dai tempi del college a Michigan State ma che rimane ancora in parte un enigma per l’incapacità di coniugare grandi statistiche a vittorie in partite chiave: parlo ovviamente di Kirk Cousins, il quale ha fatto chiacchierare di più in questi ultimi mesi per la propria deprecabile posizione no-vaxx che non per particolari macchie sul campo, dove anzi ha sin qui inanellato numeri decisamente positivi (58/81, 595 yards, 5 TDs, 112.9 QB rating).
Il nostro volo si chiude sulle rive meridionali del lago Michigan, nella terra dei quarterback perduti, che spera di avere finalmente trovato risposta ad una ricerca pluriennale di un signal caller degno di essere pietra angolare della franchigia per un decennio o più. A Chicago, la città ha accolto a braccia spalancate la selezione di Justin Fields, per me Giustino Campi, nuovo profeta giunto da Ohio State con le stimmate del predestinato. Tanti lo sono stati considerati prima di lui al loro arrivo ai Bears, per cui tutto consiglierei di fare meno che mettere la mano sul fuoco che questa sia la volta buona, eppure il livello di energia che si percepisce intorno a Giustino è difficile da ricordare. Certo, senza andare troppo indietro nel tempo, sensazioni di speranza erano sorte in seguito alla scelta di Rex Grossman al primo giro nel draft 2003, e ancora (molto) di più dopo il trade per Jay Cutler dai Broncos nel 2009, ma il più recente fallimento in questa perenne ricerca di un quarterback degno di tal nome rimane sullo sfondo per i tifosi “navy and orange” (ogni riferimento a Mitchell Trubisky non è puramente casuale). Detto questo, dopo un esordio stagionale parecchio preoccupante per i Bears nel primo Sunday Night dell’anno nella magnifica cornice del SoFi Stadium, per la prima volta con pubblico sugli spalti, Fields, che pure aveva segnato un touchdown di corsa a Los Angeles in uno dei pochi giochi, specificamente disegnati per lui, che lo avevano visto in campo contro i Rams, ha giocato larghi spezzoni della seconda partita stagionale, contro i Bengals, complice un infortunio al ginocchio patito da Andy Dalton. Infortunio che proietta Giustino Campi alla prima da titolare a Cleveland in Week 3. Un campo non facile, contro una squadra in grande crescita, ma la speranza dei tifosi Bears è che l’aria dell’Ohio faccia bene a Fields, ricordandogli la sua eccellente carriera collegiale nella non lontana Columbus, sede di The Ohio State University e dei loro Buckeyes, come sono chiamate le squadre sportive dell’ateneo. I Bears hanno rivelato in queste prime due giornate vecchi vizi, come per esempio una difesa che sembra avere perso il mordente dopo la partenza di Vic Fangio per diventare capo allenatore a Denver a fine 2018, nonché un attacco raramente capace di mantenere un ritmo (quelle sporadiche volte che lo trova). Se nel caso della difesa si brancola nel buio per comprendere le ragioni della modesta produttività di un’unità in cui si sono concentrati gli investimenti più significativi degli ultimi anni, da Khalil Mack a Robert Quinn a Eddie Jackson, tanto per citare tre (non) a caso che nelle prime due stagionali si sono visti a corrente alternata a dispetto delle legittime attese suscitate dal loro talento (e dal loro impatto sul salary cap), diverso è il discorso dell’attacco. Il dito da tempo è puntato contro Matt Nagy, l’allenatore capo che sembra che voglia a tutti i costi dimostrare di essere prima di tutto un grande offensive coordinator. A Los Angeles il game plan di Nagy ha mostrato anche aspetti positivi, che meritano elogi soprattutto per la capacità di operare aggiustamenti all’intervallo (cosa francamente vista rarissimamente durante i tre anni di Nagy head coach). Contro i Bengals, invece, si sono rivisti i limiti di un playbook che pare spesso troppo poco creativo o troppo astruso, a secondo delle occasioni. Tuttavia, sarebbe ingiusto non sottolineare anche gli aspetti positivi emersi, principalmente dal lato offensivo del campo ed in tal senso sarebbe ora di riconoscere che David Montgomery, al terzo anno tra i pro, è un running back degno di essere considerato top 10 nella lega. Ora, non resta che attendere la prima uscita a tempo pieno di Giustino Campi e sperare che per i Bears possano essere Fields of Gold, come canterebbe Sting.
(Photo credits: Twitter/Green Bay Packers; Icon Sportswire; USA Today; CBS Sports)
Autore: Federico Aletti
Data di pubblicazione:
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