Il 21 giugno 2021 è una data che potrebbe passare alla storia per lo sport collegiale a stelle e strisce, un primo passo di una potenziale rivoluzione che potrebbe mutare radicalmente l’NCAA e quindi anche il college football per come lo abbiamo conosciuto per decenni.
In questa data, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa, con una decisione storica e con un verdetto sancito all’unanimità dall’intero collegio dei giudici membri (un rotondo 9-0, per usare una metafora sportiva) in favore del diritto dei cosiddetti “studenti-atleti” di potere ricevere compensi durante la propria carriera universitaria.
National Collegiate Athletic Association v. Alston
Prima di cercare di capire meglio l’impatto concreto di questa decisione, occorre ripercorrere brevemente la storia del caso noto come “National Collegiate Athletic Association v. Alston”, dal nome di Shawne Alston, ex-running back dei West Virginia Mountaineers negli anni 2009-2012 che, insieme all’ex-giocatrice di pallacanestro dei California Bears Justine Hartman aveva portato la propria causa contro l’NCAA all’attenzione della Corte della Northern California alcuni anni orsono. A seguito di vari passaggi per corti federali nel 2019 e 2020, di un iniziale giudizio in favore degli ex studenti-atleti e di un appello della NCAA, già riconosciuta responsabile di un comportamento in contrasto con la normativa antitrust vigente negli Stati Uniti nei primi stadi processuali, il caso era arrivato alla Corte Suprema nell’ottobre 2020, estremo tentativo della NCAA di salvaguardare lo status quo.
L’NCAA non è al di sopra della legge
Uno sforzo vano, come dimostrato dalla sentenza della Corte costituzionale, scritta dal Giudice Neil Gorsuch, nelle cui motivazioni si spiega che l’NCAA non può arrogarsi un presunto diritto ad essere immune dalle regole antitrust, pur lasciando chiaro che sia oltre le prerogative della corte stabilire se e come gli atleti debbano essere eventualmente compensati. In aggiunta, però, il Giudice Brett Kavanaugh ha deciso di esprimere un ulteriore (duro) parere scritto per corroborare l’impianto della sentenza, con il quale si lascia intendere come la presente decisione, che si limita di per sé all’ammissibilità di benefici associati alle attività educative universitarie, potrebbe spianare il campo anche per scenari di cambiamento più radicali. Nelle parole di Kavanagh si legge infatti che “in nessun altro ambito negli Stati Uniti, un’impresa può impunemente decidere di non pagare i propri impiegati un salario di mercato equo sulla base dell’argomento che il proprio prodotto non sia definito da un equo valore di mercato. Alla luce dei principi della legislazione antitrust in vigore, non c’è evidenza di una ragione per cui gli sport universitari debbano essere differenti. L’NCAA non è al di sopra della legge”.
Svolta epocale
Cosa possiamo dunque dedurre e cosa possiamo attenderci dopo questa decisione? In primis, il diritto ad essere compensati riconosciuto dalla sentenza in questione non implica automaticamente che i college saranno autorizzati o tenuti a pagare un vero e proprio salario agli studenti impegnati in uno sport, di squadra od individuale che sia, praticato difendendo i colori del proprio college. Il pronunciamento della Corte Suprema apre di fatto la porta ad ulteriori benefici tangibili per gli studenti, oltre a quanto previsto da norme legislative già approvate localmente in alcuni stati come ad esempio il Texas, dove si è riconosciuta agli atleti la possibilità di monetizzare dall’uso della propria immagine, per esempio per ragioni di sponsorizzazione. Si specula (ma la sentenza lascia giustamente il campo libero per iniziative di questo tipo) che l’NCAA possa regolamentarsi globalmente o a livello di singole conferenze, per concedere ai college di offrire ai propri studenti-atleti ulteriori benefit oltre alla classica borsa di studio universitaria: per es. supporto finanziario per studiare all’estero o garanzia di stage retribuiti durante il percorso universitario o un impegno finanziario assunto all’atto di iscrizione all’università e rivolto a sostenere le spese degli studi di medicina o di legge dopo avere completato il quadriennio equivalente alla laurea specialistica dell’ordinamento universitario italiano (bachelor degree), il tutto sempre sotto il generico ombrello giustificativo di “benefici educativi”.
Come sempre, solo il tempo dirà se il futuro sarà per davvero foriero di un radioso progresso o piuttosto di un sempre più incolmabile divario fra ricchi e poveri sotto la bandiera della presunta redistribuzione della ricchezza da parte dell’opulenta NCAA. Se da un lato gli studenti-atleti potranno, legittimamente, aspirare ad una fetta dei profitti che le loro prestazioni generano per le università di appartenenza, non si può dall’altro liquidare come un’ipotesi peregrina uno scenario di esasperazione delle già esistenti differenze non solo fra college di prima, seconda e terza classe a seconda delle possibilità pecuniarie di sostenere il “costo” dei propri dipartimenti atletici (e quindi delle proprie reclute), ma anche fra sport di prima, seconda e terza fascia, considerando l’impatto positivo che gli enormi introiti del football e, in misura minore, del basket, garantiscono anche per gli investimenti nei cosiddetti “sport minori”.