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Ciao Drew…
Si ritira uno dei più grandi Quarterback della storia della NFL, dai suoi inizi a San Diego, fino alla gloria ottenuta nel Bayou
Sono un tifoso dei New Orleans Saints. Alcuni lettori dei Saints, in totale onestà e sincerità, mi hanno fatto notare che nell’ultima stagione sono stato severo, duro, contro Drew e la squadra. Ma c’è una cosa da fare, adesso, che Brees si è ritirato. E bisogna dedicargli un tributo. Anche perché c’era da metabolizzare la notizia.
Essere tifosi dei Saints non è così facile, credetemi.
Visitai New Orleans nel 2015. La missione di quella vacanza, era ottenere informazioni per l’ammissione ad LSU. Il sentimento, purtroppo, non è mai stato corrisposto, però in Louisiana ho un bel po’ di amici. E con le amicizie, nasce anche un forte desiderio di conoscere quella città dal forte profumo europeo. Che rimane limitato al quartiere francese, quel piccolo quadrato a ridosso del fiume Mississippi, che serpeggia nel delta, sfocia nel golfo del Messico, e non si capisce bene se dove finisce il fiume e dove inizia il mare.
Per motivi di lavoro, e interessi comuni, conobbi questi amici che vennero a Torino per un messaggio molto chiaro: New Orleans rischia di essere sommersa, di nuovo, non per colpa di un uragano, ma per il fatto che ogni giorno, l’acqua si appropria di un lembo di terra pari ad un campo da calcio, o da football, le proporzioni sono simili.
L’effetto è quello dei cambiamenti climatici. L’acqua che adesso sommerge pian piano il delta del Mississippi, una volta era serenamente intrappolata nelle calotte polari e nei ghiacciai montani. Ora, invece, l’acqua rischia veramente di prendersi quegli spazi di città costiere come New Orleans, Miami, ma anche Venezia, New York, Tokyo, Sydney. Il vero di nemico di New Orleans non sono le squadre che giocano 8 partite al Superdome, ma il bene comune più prezioso e insidioso del pianeta, l’acqua. Troppa, e sommerge le città, troppo poca, e le cancella.
In quel 2015 vidi con i miei occhi quelle ferite aperte che Katrina si è lasciata dietro di se. Anche gli americani non sono immuni dagli scandali edilizi, governativi e sanitari. La Louisiana era una piccola oasi felice, dove c’era ancora una parvenza di sanità pubblica. Era gestita proprio dalla LSU Department of Health, ed ebbe anche un discreto successo. Proprio a New Orleans, c’è anche la Tulane University. Un’università privata, che non fa parte del gruppo delle Ivy League, ma che eccelle in un ambito particolarmente cruciale: la medicina. Pagare 60 mila dollari di retta annuale per studiare letteratura o storia sarebbe un po’ oneroso, ma per studiare medicina in una facoltà di scienze mediche e medicina tropicale può far fruttare un sacco di soldi, una volta laureati. Insomma, se qualcuno voleva farsi curare, New Orleans poteva essere il posto giusto. Personale altamente qualificato, strutture all’avanguardia. C’è tutto quello che serve. E soprattutto, un ospedale, pubblico, capace di dare le giuste cure, alle persone che richiedono assistenza. Poi arriva Katrina, i disastri che si porta appresso, e l’ospedale va in crisi.
«Hanno dovuto portare i malati del pronto soccorso ai piani più alti. Stava arrivando così tanta acqua, che hanno dovuto lavorare come matti, per salvare i pazienti in emergenza» mi dicono. «Il peggio, è che bisogna portarli, a spalle, sulle scale, perché gli ascensori sono diventati piscine». È vero… Katrina ha colto tutti di sorpresa, il peggio è che l’amministrazione Bush non fece niente per emanare ordini esecutivi, che fossero in qualche modo tempestivi. L’evacuazione della città, ordinata per obbligo, non fu mai data. E quello che successe dopo, ebbe persino il sentore della beffa: la popolazione bianca, ricca per default, fu una delle prime a lasciare la città. La parte nera, quella più votata alla ristorazione, alla musica, alla vita vera vissuta, rimase intrappolata sui tetti. Oppure si rifugiò nel Superdome. Unica struttura che potesse in qualche modo ospitare centomila persone, tutte insieme, in un enorme rifugio anti-uragano. Quando Bush (George W.) andò a New Orleans, sentì tanti fischi. I tifosi sanno essere molto rumorosi.
L’ospedale fu abbandonato, e ne costruirono accanto uno identico, stavolta privatizzandolo.
Il rebuilding, tra Superdome e squadra
La ricostruzione della città iniziò subito dopo. Sorsero, in maniera repentina e senza particolari ostacoli, tante iniziative per riportare la città subito sulle rotaie giuste, meglio di quelle che portano in giro i tram. Gli U2 fecero si che si potesse rifornire la città di strumenti musicali. Alcuni andarono completamente distrutti dall’alluvione di Katrina, e in una città di sapori, profumi e musica, era del tutto necessario che quei suoni tornassero ad accompagnare le serate dentro i locali dove servono Sazerac e musica jazz.
Contemporaneamente, però, non si era sicuri del fatto che i Saints rimanessero a New Orleans. Fondati il Primo Novembre (giorno dedicato a tutti i Santi) del 1967, rischiarono sul serio di trasferirsi in Texas, a San Antonio. Poi però prevalse il buonsenso. Tom Benson chiese, e ottenne, almeno una condizione: «io ci metto del mio per reinvestire a Metairie (nella periferia ovest di New Orleans), e insieme al comune, risistemiamo lo stadio»
Poi bisognava, come minimo, trovare un modo per rendere la squadra competitiva. Il manager c’era già, e Mickey Loomis è uno dei più duraturi general manager della NFL (bazzica gli spalti del Dome dal 2000) si decide di assumere il coordinatore offensivo dei Cowboys, un promettente genio offensivo dal nome di Sean Payton nel post Katrina. Nel 2006, al primo round del draft si prende l’Heisman Trophy proveniente da Southern California, Reggie Bush (finalmente un Bush che non sentirà fischi), ma manca il QB.
«Speriamo firmi…»
Payton era veramente convinto nelle capacità di Drew Brees. Solo che i Dolphins avevano già fatto un sondaggio, virando poi per Daunte Culpepper. Drew volò per New Orleans, sulla strada che portava indietro a San Diego. All’aeroporto Louis Armstrong, lo attendeva Payton. Cercava di fare pure il brillante, e nei sedili posteriori Brittany, la moglie, si era addormenta. Payton pensava «ecco, non convincerò mai questi due a trasferirsi, il mio discorso è stato soporifero». Ma Drew era in cerca di un contratto. I Chargers l’avevano creduto oramai carne in scatola, quella spalla li non dava più fiducia. Ma si guardava intorno a se, e vedeva macerie. Un po’ come quella sua spalla malconcia appena ritornata a girare benino, dopo un’operazione complicata. Vedeva macerie, e disse alla moglie: «è un segno del destino, guarirò io, e guarirà la città». Pianta la sua bandiera nel Garden District, il quartiere residenziale dove per anni i Manning l’hanno fatta solo da padrone. Ma era tempo che si insediasse una nuova dinastia.
Annus Domini in Gratia 2010
È il 7 Febbraio 2010. A Miami si sfidano i Saints e i Colts. In quello stadio poteva giocare Drew, e da quando i Dolphins l’hanno lasciato andare via, complice un dottore che non vedeva più in la di una spalla rimessa a posto, fino al giorno del ritiro di Drew, si sono avvicendati 17 QB per i Dolphins. E in quel periodo, che dal 2006 al 2021, Drew ha avuto modo di vincere un Super Bowl contro quello che venne giudicato come uno dei suoi più difficili rivali, Peyton Manning. Le statistiche sono per chi vuole perdere tempo a sfogliare gli almanacchi. E anche le delusioni accumulate sono state tante.
Si ritira quindi un futuro Hall of Fame, che di sicuro indosserà quella giacca dorata che adorna le spalle di tantissime altre leggende della NFL, e che ha lasciato il suo solco su questa terra martoriata da disastri naturali e pestilenze. Si ritira, per passare più tempo con la famiglia (e non lascerà New Orleans, se non per andare a commentare le partite su NBC Sports). Si ritira, perché il suo braccio non è più brillante come una volta. Si ritira, perché forse il piano grandi di tutti (si, Tom Brady) sarà l’unico che può ancora mettere in discussione i suoi record. Tom, ma anche quel ragazzo pieno di talento e creatività che abita a Kansas City. Si ritira, perché i giovani QB oramai sono maturi, e vogliono avere le opportunità che Drew ha saputo cogliere. Si ritira, perché Cesare piange, dato che non ci sono più mondi da conquistare (ha vinto contro tutte e 32 le squadre della NFL). Si ritira, perché oramai ha 41 anni, e non ha il fisico di Tom Brady (che ha vinto 6 Lombardi Trophy più di lui). Si ritira, anche se ne avrebbe meritato uno in più in bacheca. Si ritira, lasciando dietro di se la consapevolezza di essere stato uno dei grandi, limitato dalla genetica (per lui mai un problema), ma con grandissimo senso di gioco. Si ritira, sapendo che alcuni come Stafford, forse anche Darnold, Lamar Jackson, Goff, potrebbero non vincere quanto ha vinto lui, e con quelle statistiche.
Drew Brees si è ritirato
Autore: Ruben Novello
Data di pubblicazione: